il mistero delle foibe: un crimine nascosto

il mistero delle foibe: un crimine nascosto

Nella sezione dedicata alla storia non può mancare qualche pagina dedicata all'orrore che si verificò durante la seconda Guerra Mondiale. Una sorta di olocausto italiano sul quale ancora veglia il mistero. Questa è una rubrica de "Il Duce: Benito Mussolini" a cura di Roberto Goglia, nostro collaboratore. 

Questa sezione è interamente a cura di Roberto Goglia. I dati si riferiscono all'anno 2001.

 

  Il responsabile delle foibe:  Tito il Boja - la sua storia  (autore: Valentino Quintana)

anno 2001: Lo Speciale: L'inchiesta di Roberto Goglia Le pensioni pagate dall'Inps agli infoibatori

 

La storia delle Foibe

La testimonianza

Le Foto

L'elenco delle Foibe

I libri di storia

Il responsabile

L'intervista

 

 

"Foibe"

ERAN GIORNI DI SANGUE
ERAN GIORNI SENZA FINE
PER LE ORDE SLAVE L'ULTIMO CONFINE
ERAN GLI ULTIMI FUOCHI DI UNA INFINITA GUERRA
E QUEI BARBARI FEROCI VOLEVAN QUELLA TERRA
UOMINI E DONNE  VENIVAN MASSACRATI
LORO SOLA COLPA ITALIANI ESSER NATI
VECCHI E BAMBINI GETTATI NEGLI ABISSI
SPINTI GIU' NEL VUOTO DAI GENDARMI ROSSI
FOIBE NELLA ROCCIA E DI ROCCIA ERA ANCHE IL CUORE
DI UN MARESCIALLO BOIA DI TANTA GENTE SENZA NOME
VENIVANO SOSPINTI CON FURORE E ODIO
VITTIME PRESCELTE PER UN VERO GENOCIDIO
E DOPO 50 ANNI HAN FINTO DI SCOPRIRE
CIO' CHE SEMPRE SI E' SAPUTO
E CONTINUANO A MENTIRE
MA NON AVRA' MAI PACE QUELLA NUDE OSSA
FINCHE' ESISTERA' L'IMMONDA BESTIA ROSSA
E' PASSATO TANTO TEMPO MA IL MIO CUORE GIOISCE ANCORA
QUANDO SIGNORA MORTE SUONO' LA SUA ULTIMA ORA
PER QUEL MARESCIALLO ASSASSINO D'INNOCENTI
PER QUEL BOIA IMMONDO AGUZZINO DI TANTI
E NON POSSO PIU' SCORDARE CHE IL MIO CUORE PIANGE ANCORA
AL RICORDO DI UN PRESIDENTE CHE HA BACIATO LA SUA BARA
PRESIDENTE DI QUELL'ITALIA CHE HA VOLUTO DIMENTICARE
CHI FU MASSACRATO PERCHE' ITALIANO VOLEVA RESTARE.

 

 

Ilduce.net e tutto il suo staff vogliono così ricordare le decine di migliaia di italiani che hanno perso la vita in un modo così atroce. Noi non abbiamo mai dimenticato le vittime di un genocidio che viene fin troppo taciuto per lasciar spazio a molte altre menzogne.

 

 

Studio sulla vergogna dimenticata:

LE FOIBE

Probabilmente a molti questa parola non dice nulla, così come Bassovizza Opicina sono luoghi sconosciuti ai più, ma quella parola quei luoghi rappresentano una delle pagine più tristi e drammatiche della storia Italiana.

 

Le Foibe ( dal latino "fovea", che significa "fossa"); non sono solo voragini rocciose, a forma di imbuto rovesciato, create dall'erosione di corsi d'acqua, che possono raggiungere anche i 200 metri di profondità, ma rappresentano anche delle inguaribili ferite nella memoria e nella coscienza di molti italiani. In quei luoghi dall'8 settembre del 1943 e fino a tutto il 1946, in Istria prima e poi nel territorio di trieste e in gran parte della venezia giulia, i partigiani delle formazioni titine, cui erano in qualche caso aggregate formazioni partigiane italiane, usavano le foibe per eliminare, gettandoveli dentro, i "fascisti italiani, militari o civili che fossero. Ben di rado l'eliminazione fisica e il conseguente " infoibamento" avveniva mediante una semplice fucilazione. Comunemente, prima di essere gettati nelle fosse, gli uomini e le donne, rastrellati e strappati dalle loro case e condannati senza processo alcuno, erano evirati, stuprati, accecati, torturati. Alcuni furono legati a cadaveri con filo spinato e quindi gettati vivi nei crepacci. Il numero così delle persone sterminate non è mai stato accertato. Nelle foibe furono precipitati civili d'ogni credo e colore politico, colpevoli esclusivamente d'essere italiani. Ma per questi crimini nessuna ha mai pagato!

Nei libri di storia a scuola non troverete quest'argomento, poichè rappresenta un aspetto scandaloso e sconcertante della "intoccabile resistenza". La ragione risiede, ovviamente, nei cinquant'anni del dopoguerra, quando la cultura è stata solo quella dell'antifascismo. In italia per cinquant'anni si è volutamente e vergognosamente taciuto su questi fatti. Si è taciuto sulle liste di proscrizione che i titini portarono con loro quando, nel 1943 e nel 1945, invasero trieste e la venezia giulia; si è taciuto sulle migliaia di persone che scomparirono da quei luoghi deportati nei campi di concentramento di Borovnica, Maribor, Aidussina ed altre località della allora Jugoslavia. In mezzo secolo pochi coraggiosi hanno osato andare controcorrente cercando documenti, testimonianze e prove di quello sterminio dimenticato. I sopravvissuti ed i parenti delle vittime aspettano ancora giustizia.

Ma quante furono le vittime delle foibe? nessuno lo saprà mai! Di certo non lo sanno neanche gli esecutori delle stragi. Questi non hanno parlato e non parlano. D'altra parte è, pensabile che in quel clima di furore omicida e di caos ben poco ci si curasse di tenere contabilità delle esecuzioni. Sulla base di vari elementi ( escludendo Basovizza dopo ne parleremo ) si calcola che gli infoibati furono alcune migliaia. Più precisamente, secondo lo studioso triestino Raoul Pupo, "il numero degli infoibati può essere calcolato tra i 4 mila e i 5 mila, prendendo come attendibili i libri del sindaco Gianni Bartoli e i dati degli anglo-americani". Alle vittime vanno aggiunti i deportati, anche questi a migliaia nei lagher jugoslavi, dai quali una gran parte non conobbero ritorno. Complessivamente le vittime di quegli anni tragici, soppresse in vario modo da mano slavo-comunista, vengono indicati in 10 mila anche più. Belgrado non ha mai fatto o contestato cifre. Lo stesso Tito però ammise la grande mattanza. In alto abbiamo accennato a Basovizza, ma cos'è? Occorre precisare che questa tristemente famosa voragine non è una Foiba naturale, ma il pozzo di una miniera scavato all'inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri, nella speranza di trovarvi il carbone. La speranza andò delusa e l'impresa venne abbandonata. nessuno allora si curò di coprire l'imboccatura e così, nel 1945, il pozzo si trasformò in un grande, orrida tomba. Anche qui i deportati venivano prima catturati poi fatti salire in autocarri della morte questi, con le mani straziate dal filo spinato venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazione riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. La maggior parte delle vittime venivano prima spogliate e seviziate. Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella foiba di Basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante. Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri. lo spazio volumetrico - indicato sulla stele al sacrano di Basovizza in 300 metri cubi - conterebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime! una cifra agghiacciante.

 

 Roberto Goglia   

                      " Ricordo l'italia di fiume i reduci offesi da fame e terrore e il sogno rinascere a ottobre e gli antichi valori rinascere in me"   ( RICORDI - G. Marconi )

 

 


 

 

Nel carcere di Fiume il 9 ottobre 1945 Stefano Petris scrisse il suo testamento sui fogli bianchi della "Imitazione di Cristo":Petris Stefano

 

Non piangere per me. Non mi sono mai sentito così forte come in questa notte di attesa, che è l'ultima della mia vita. Tu sai che io muoio per l' Italia. Siamo migliaia di italiani, gettati nelle Foibe, trucidati e massacrati, deportati in Croazia falciati giornalmente dall'odio, dalla fame, dalle malattie, sgozzati iniquamente. Aprano gli occhi gli italiani e puntino i loro sguardi verso questa martoriata terra Istriana che è e sarà Italiana. Se il tricolore d' Italia tornerà, come spero, a sventolare anche sulla mia Cherso, bacialo per me, assieme ai miei figli. Domani mi uccideranno. Non uccideranno il mio spirito, nè la mia fede. Andrò alla morte serenamente e come il mio ultimo pensiero sarà rivolto a Dio che mi accoglierà e a voi, che lascio, così il mio grido, fortissimo, più forte delle raffiche dei mitra, sarà: viva l' Italia!" .

 

 

 

FOIBA DI SCANDALCINA

sulla strada di Fiume

FOIBA DI PODUBBO

Non è stato possibile, per difficoltà, il recupero. "Il piccolo" del 5\12\1945 rifrisce che coloro che si sono calati nella profondità di 190 metri, hanno individuato cinque corpi ( tra cui quello di una donna completamente nuda ) non identificabili a causa della decomposizione.

 

FOIBA DI DRENCHIA

Secondo Diego De Castro vi sarebbero cadaveri di donne, ragazzi dell'Osoppo

ABISSO DI SEMICH

" ... Un'ispezione del 1944 accertò che i partigiani di tito, nel settembre precedente, avevano precipitato nell'abisso di semich ( presso lanischie ), profondo 190 metri, un centinaio di sventurati: soldati italiani e civili, uomini e donne, quasi tutti prima seviziati a ancor vivi. Impossibile sapere il numero di quelli che furonogettati a guerra finita, durante l'orrendo 1945 e dopo. Questa è stata una delle tante Foibe carsiche trovate adatte, con approvazione dei superiori, dai cosiddetti tribunali popolari, per consumare varie nefandezze. La Foiba ingoiò indistintamente chiunque avesse sentimenti italiani, avesse sostenuto cariche o fosse semplicemente oggetto di sospetti e di rancori. Per giorni e giorni la gente aveva sentito urla strazianti provenire dall'abisso, le grida dei rimasti in vita, sia perchè trattenuti dagli spuntoni di roccia, sia perchè resi folli dalla disperazione. Prolungava l'atroce agonia con sollievo, l'acqua stillante. Il prato conservò per mesi le impronte degli autocarri arrivati qua, grevi del loro carico umano, imbarcato senza ritorno..." (Testimonianza di mons. Parentin - da "La voce giuliana" del 16\12\1980).

FOIBA DI OPICINA, DI CAMPAGNA E DI CORGNALE

" ... Vennero infoibate circa duecento persone e tra queste figurano una donna ed un bambino, rei di essere moglie e figlio di un carabiniere..." ( G. Holzer, 1946 ).

FOIBE DI SESANA E ORLE

Nel 1946 sono stati recuperati corpi infoibati.

FOIBA DI CASSEROVA

Sulla strada di fiume, tra Obrove e Golazzo. Sono stati precipitati tedeschi, uomini e donne italiani, sloveni, molti ancora vivi, poi dopo aver gettato benzina e bombe a mano, l'imboccatura veniva fatta saltare. Difficilissimi i recuperi.

ABISSO DI SEMEZ

Il 7 Maggio 1944 vengono individuati resti umani corrispondenti a ottanta, cento persone. Nel 1945 fu ancora "usato".

FOIBA DI GROPADA

Sono recuperate cinque salme. "... Il 12 Maggio 1945 furono fatte precipitare nel bosco di gropada trentaquattro persone, previa svestizione e colpo di rivoltella "alla nuca". Tra le ultime: Dora Ciok, Rodolfo Zuliani, Alberto Marega, Angelo Bisazzi, Luigi Zerial e Domenico Mari..."

FOIBA DI VILLA ORìZI

Nel mese di maggio del 1945, gli abitanti del circondario videro lunghe file di prigionieri, alcuni dei quali recitavano il Padre Nostro, scortati da partigiani armati di mitra, essere condotte verso la voragine. Le testimonianze sono concordi nell'indicare in circa duecento i prigionieri eliminati.

FOIBA DI CERNOVIZZA (PISINO)

Secondo voci degli abitanti del circondario le vittime sarebbero un centinaio. L'imboccatura della Foiba, nell'autunno del 1945, è stata fatta franare.

FOIBA DI OBROVO (FIUME)

E' luogo di sepoltura di tanti fiumani, deportati senza ritorno.

FOIBA DI RASPO

Usata come luogo di genocidio di italiani sia nel 1943 che nel 1945. Imprecisato il numero delle vittime.

FOIBA DI BRESTOVIZZA

Così narra la vicenda di una infoibata il "Giornale di trieste" in data 14\08\1947: "... gli assassini l'avevano brutalmente malmenata, spezzandole le braccia prima di scaraventala viva nella Foiba. Per tre giorni, dicono i contadini, si sono sentite le urla della misera che giaceva ferita, in preda al terrore, sul fondo della grotta...".

FOIBA DI ZAVNI (FORESTA DI TARNOVA)

Luogo di martirio dei carabinieri di Gorizia e di altre centinaia di Sloveni oppositori del regime di tito.

FOIBA DI GARGANO O PODGOMILA (GORIZIA)

A due chilometri a nord-ovest di gargaro, ad una curva sulla strada vi è la scorciatoia per la frazione di Bjstej. A un trentina di metri sulla destra della scorciatoia vi è una Foiba. Vi furono gettate circa ottanta persone.

FOIBA DI VINES

Recuperate dal maresciallo Harzarich dal 16\10\1943 al 25\10\1943 cinquantuno salme riconosciute. In questa Foiba, sul cui fondo scorre dell'acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati, furono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano nell'interno. Unico superstite, Giovanni Radeticchio, ha raccontato il fatto.

CAVA DI BAUXITE DI GALLIGNANA

Recuperate dal 31 novembre 1943 all'8 Dicembre 1943 ventitrè salme di cui sei riconosciute.

FOIBA DI TERLI

Recuperate nel novembre del 1943 ventiquattro salme, riconosciute.

FOIBA DI TREGHELIZZA Recuperate nel Novembre del 1943 due salme, riconosciute.
FOIBA DI PUCICCHI Recuperate nel novembre del 1943 undici salme di cui quattro riconosciute.
FOIBA DI SURANI Recuperate nel Novembre del 1943 ventisei salme di cui ventuno riconosciute.
FOIBA DI CREGLI Recuperate nel Dicembre del 1943, otto salme, riconosciute.
FOIBA DI CERNIZZA Recuperate nel dicembre del 1943 due salme, riconosciute.
FOIBA DI VESCOVADO Scoperte sei salme di cui una identificata.

Altre foibe da cui non fu possibile eseguire il recupero nel periodo 1943 - 1945.

- SEMI
 
- JURANI
 
- GIMINO
 
- BARBANA
 
- ABISSO BERTARELLI
 
- ROZZO
 
- IADRUICHI
 
- FOIBA DI COCEVIE a 70 chilometri a sud-ovest da lubiana.
 
- FOIBA DI SAN SALVARO
 
- FOIBA BERTARELLI (pinguente) - Qui gli abitanti vedevano ogni sera passare colonne di prigionieri ma non ne vedevano mai il ritorno.
 
- FOIBA DI GROPADA
 
- FOIBA DI SAN LORENZO DI BASOVIZZA
 
-FOIBA DI ODOLINA   Vicino Bacia, sulla strada per Matteria, nel fondo dei Marenzi.
 
- FOIBA DI BECA Nei pressi di cosina.
 
- FOIBA DI CASTELNUOVO D'ISTRIA "Sono state poi riadoperate - continua il rapporto del cln - le foibe istriane, già usate nell'ottobre del 1943".
 
- CAVA DI BAUXITE DI LINDARO
 
- FOIBA DI SEPEC (ROZZO)
 
- CAPODISTRIA - LE FOIBE -

 

Dichiarazioni rese da Leander Cunja, responsabile della commissione di indagie sulle foibe del capodistriano, nominata dal consiglio esecutivo dell'assemblea comunale di Capodistria:

 

"... nel capodistriano vi sono centosedici cavità, delle ottantuno cavità con entrata verticale abbiamo verificato che diciannove contenevano resti umani. Da dieci cavità sono stati tratti 55 corpi umani che sono stati inviati all'istituto di medicina legale di lubiana. Nella zona si dice che sono finiti in Foiba, provenienti dala zona di S. Servolo, Placido Sansi. I civili infoibati provenivano dalla terra di S.Dorligo della Valle.

I capodistriani, infatti, venivano condotti, per essere deportati ed uccisi, nell'interno, verso Pinguente. Le Foibe del capodistriano sono state usate nel dopoguerra come discariche di varie industrie, tra le quali un salumificio della zona..."

 

 

 

TITO: IL KILLER

Quest'uomo, Josip Broz ( kumrovec, Croazia 1892 - Lubiana 1980 ) meglio conosciuto col soprannome di Maresciallo Tito, è il responsabile principale del genocidio di milioni di persone! Eppure, oggi, viene ricordato come un patriota, come una persona da imitare. Nel 1980, ai suoi funerali, oltre alle autorità italiane, c'erano le più alte cariche dei paesi di mezzo mondo. Quest'uomo, dopo essersi macchiato di orrendi crimini, è stato inumato con tutti gli onori possibili spettanti ad un capo di stato. Purtroppo non viene ricordato per quello che è stato in realtà: un criminale di guerra!

 

I FATTI

Dal 3 maggio 1945, per tre giorni e tre notti, le truppe del maresciallo Tito, avide di sangue, si scatenarono, con inaudita violenza, contro coloro che, da sempre, avevano dimostrato sentimenti di italianità. A campo di marte, a Cosala, a Tersatto, lungo le banchine del porto, in piazza Oberdan, in viale Italia, i cadaveri s'ammucchiarono e non ebbero sepoltura. Nelle carceri cittadine e negli stanzoni della vecchia questura, nelle scuole di piazza Cambieri, centinaia di imprigionati attendevano di conoscere la propria sorte, senza che nessuno si preoccupasse di coprire le urla degli interrogati negli uffici di Polizia, adibiti a camere di tortura. Altre centinaia di uomini e donne, d'ogni ceto e d'ogni età, svanirono semplicemente nel nulla. Per sempre. Furono i "desaparecidos". Gli avversari da mettere subito a tacere vengono individuati negli autonomisti, cioè coloro che sognano uno stato libero; ai furibondi attacchi di stampa condotti dalla "voce del Popolo" si accompagnò una dura persecuzione, che già nella notte fra il 3 e il 4 maggio portò all'uccisione di Matteo Biasich e Giuseppe Sincich, personaggi di primo piano del vecchio movimento zanelliano, già membri della costituente fiumana del 1921. Assieme agli autonomisti, negli stessi giorni e poi ancora nei mesi che verranno, trovarono la morte a fiume anche alcuni esponenti del CLN ed altri membri della resistenza italiana, fra cui il noto antifascista Angelo Adam, mazziniano, reduce dal confino di Ventolene e dal lager nazista di Dachau secondo una linea di condotta che trova riscontro anche a Trieste ed a Gorizia, dove a venir presi di mira dalla Polizia politica jugoslava, sono in particolare gli uomini del Comitato di liberazione nazionale. La scelta appare del tutto conseguente, dal momento che sul piano politico il CLN è un'organizzazione direttamente concorrenziale rispetto a quelle ufficiali, delle quali è ben in grado di contestare l'esclusiva rappresentatività degli antifascisti. Pertanto, per i titini, appare come l'avversario più pericoloso, sia perchè potenzialmente in grado di diventare il punto di riferimento della popolazione di sentimenti italiani, sia in quanto l'eventuale accoglimento delle sue pretese di riconoscimento, quale legittima espressione della resistenza italiana, farebbe cadere uno dei pilastri principali su cui regge l'edificio dei poteri popolari. Ma la furia si scatenò con ferocia nei confronti degli esponenti dell'italianità cittadina. Furono subito uccisi i due senatori di Fiume, Riccardo Gigante e Icillo Bacci, e centinaia di uomini e donne, di ogni ceto e di ogni età, morirono semplicemente per il solo fatto di essere italiani. Oltre cinquecento fiumani furono impiccati, fucilati, strangolati, affogati. Altri incarcerati. Dei deportati non si seppe più nulla. Cercarono subito gli ex legionari dannunziani, gli irredentisti della prima guerra mondiale, i mutilati, gli ufficiali, i decorati e gli ex combattenti. Adolfo Landriani era il custode del giardino di piazza verdi non era Fiumano, ma era venuto a Fiume con gli arditi e per la sua statura tutti lo chiamavano "maresciallino". Lo chiusero in una cella e gli saltarono addosso in quattro o cinque, imponendogli di gridare con loro "viva la jugoslavia!". Lui, pur così piccolo si drizzò sulla punta dei piedi, sollevò la testa in quel mucchio di belve, e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: " VIVA L'ITALIA". Lo sollevarono, come un bambolotto di pezza, poi lo sbatterono contro il soffitto, più volte, con selvaggia violenza e lui ogni volta: " VIVA L'ITALIA! VIVA L'ITALIA!" sempre più fioco, sempre più spento, finchè il grido non divenne un bisbiglio, finchè la bocca piena di sangue non gli si chiuse per sempre. Qualcuno morì più semplicemente. per aver ammainato in piazza Dante la bandiera Jugoslava. Il 16 ottobre del 1945, un ragazzo Giuseppe Librio, diede tutti i suoi diciott'anni, pur di togliere il simbolo di una conquista dolorosa. Lo trovarono il giorno dopo, tra le rovine del molo Stocco, ucciso con diversi colpi di pistola.

" A nessuno di questi eroi, semplici e sconosciuti, l'italia concederà una medaglia alla memoria"  
Roberto Goglia

 

 

 

 

 

FOIBE: Ne parla un sopravvissuto della Repubblica Sociale
a cura di Italynews.it

 

Questo speciale è dedicato al problema delle foibe, ai morti italiani dimenticati, ai sopravvissuti mai ascoltati, alla storia non ancora insegnata, alla memoria di tutti: vinti e vincitori, nonni, padri, figli e nipoti. Ilduce.net pubblica questa intervista per gentile concessione degli autori di Italynews.
 
A raccontarcela è Gino Brambilla un uomo che ha dedicato tutta la sua vita agli ideali di Patria, Onore, e Famiglia. Nato a Milano, classe 1928, cresciuto a Moltrasio sul Lago di Como, attualmente residente a Portoferraio, all’Isola d’Elba è uno dei pochi “testimone oculare vivente” e “sopravvissuto” delle foibe venete e ci racconta, in esclusiva per www.italynews.it, gli avvenimenti avvenuti nel Presidio di Fregona, vicino a Vittorio Veneto in provincia di Treviso, negli ultimi mesi di guerra.
Ma il suo racconto della foiba del Bus de La Lum, sul Pian del Cansiglio è di quelli che difficilmente si dimenticano. 


Quando è perché ha aderito alla RSI? 
Era il 10 ottobre 1943.
Partii da Moltrasio per Milano dopo che la radio ci informò che Benito Mussolini era stato liberato, ma la decisione l’avevo maturata nelle settimane precedenti: volevo combattere il nemico che avanzava sul suolo della Patria. 

In quale zona d’Italia ha operato? 
Appartenevo alla XXII^ Brigata Nera A. Faggion di Vicenza, II^ Comp. del I° Btg. da Vicenza alcune squadre della nostra Brigata, tra cui la mia, vennero trasferite a Vittorio Veneto. I nostri compiti erano sopratutto di pronto intervento nella lotta anti-ribelli, l’esperienza accumulata quando operavamo nel Vicentino aveva reso le nostre squadre più che efficienti, ognuno di noi in qualunque situazione sapeva come comportarsi.
Sin dai primi giorni si usciva spesso di pattuglia anche se nei primi tempi non si ebbero contatti con i ribelli, quando incominciarono gli scontri la mia esperienza mi fece capire che i problemi incominciavano a farsi più seri, poi ci trasferirono a Fregona, un paese ai piedi del Cansiglio, dove vi era la sede dei ribelli della Nino Nannetti.
In un primo tempo eravamo solo noi di Vicenza circa 75 persone, poi arrivò un contingente della XIX^ Brigata Nera Romolo Gori di Rovigo un centinaio di persone, arrivando così ad un massimo di 180 uomini tra ufficiali e truppa, 5 ausiliarie, ed in un secondo tempo arrivarono anche due anziani soldati Tedeschi. 

Come erano i rapporti con la popolazione civile in particolar modo con gli ebrei? 
Con la popolazione civile buoni, con cittadini italiani di religione ebraica non ho mai avuto rapporti o contatti. 


Cosa ci dice delle locali formazioni partigiane. 
E’ sufficiente dire con le due parole con le quali la locale popolazione definiva allora i partigiani: ribelli e assassini. Chi frequenta quelle località sa che ancora oggi i vecchi chiamano i partigiani con quei nomi che ti ho detto. 

Ha subito il “processo della Montagna”? 
Mi ricordo tutto come se fosse avvenuto solo oggi, eppure di anni ne sono trascorsi. Appena fatto prigioniero a Fregona incomincia ad arrivare gente, la scalinata si riempie, arriva anche il Vicario, Don Raffaele Lot che conoscevo bene (con me si vantava di essere stato il primo cappellano della provincia di Treviso ad avere aderito alla Repubblica Sociale). 
Mi saluta e poi mi dice perché non avevo ammazzato il mio capitano, se lo avessi fatto mi avrebbero già mandato a casa. Non dissi nulla, ma dentro di me pensai che aveva ragione il mio capitano quando mi ordinò di ammazzare il prete. 
Poi dalla folla usci un ribelle, mi guardò, e mi chiese se ero stato in un tal posto che ora non rammento più , io vi ero stato , ma dato che non sapevo per quale motivo lo chiedeva, dissi di no . 
Si allontanò, poi ritornò insieme ad un altro ribelle , il quale mi squadrò e disse : "se lù (è lui) e mi abbracciò. 
Poi ricordai che, mesi prima, nei miei spostamenti, avevo avuto l’occasione di imbattermi alcune volte con dei boscaioli che viaggiavano in bicicletta, tenendo legata alla canna una scure da boscaioli fermata da alcuni lacci di legno di salice, come era in uso al mio paese sul Lago di Como . 
Mi ricordavano il paese e la famiglia e, come era uso tra boscaioli, ci salutavamo (questo avveniva anche fra me volontario delle Brigate Nere e questi due boscaioli veneti). Un giorno, durante un rastrellamento tedesco, in seguito all’uccisione di militari in transito da parte dei ribelli, mentre mi spostavo con la mia squadra, vidi dei civili imprigionati dai tedeschi, appoggiate al muro vi erano due biciclette con le scuri che mi ricordavano i boscaioli conosciuti tempo prima. 
Mi avvicino ai prigionieri e tra questi riconosco i due. Vado dal responsabile del rastrellamento (un ufficiale tedesco) gli mostro le mie credenziali, e garantisco che conosco i due e che vengano rilasciati sotto la mia responsabilità e così dopo alcune perplessità, il comandante accetta, fornisce ai due boscaioli i lasciapassare per uscire dalla zona del rastrellamento e dice: "mettetevi in ordine con i documenti, non sempre potete trovare un amico che garantisca per voi". Ora ero io a trovarmi prigioniero, e i due fratelli, che di cognome facevano Frare, dissero ai ribelli: "Che nessuno tocchi costui, che ci ha salvato la vita dai Tedeschi" e da quel momento i miei due angeli custodi non mi lasciarono un momento. 
Poi in mezzo ai tre ribelli e ai miei amici, seguito da alcuni abitanti, andiamo verso Mezzavilla dove, in mezzo ad un gruppo di case, c è una specie di porticato che è stato trasformato in ospedale; ci sono sette o otto feriti medicati alla meglio; giacciono sopra a brande e a letti di civili; mi portano davanti ad un comandante dei ribelli, il "Maggiore Neno", mi squadra da cima a fondo e dice: "Ora ti sistemiamo noi" poi dice ai miei accompagnatori: "Portatelo sù" e parto accompagnato da urla e minacce dei ribelli che stanno con i feriti. Piai e Sonego che attraverso, sono frazioni di Fregona. 
Lasciate le abitazioni, lungo un sentiero che avevo già battuto diverse volte in cerca di ribelli, dopo un bel pò di strada, arriviamo ad una malga già da me visitata durante i rastrellamenti, mi fanno entrare in una stanza dove c'è un gruppo di ribelli attorno ad un bel camino con un fuoco acceso; questi mi guardano come se fosse la prima volta che vedono uno delle Brigate Nere . 
Da quando mi hanno fatto prigioniero non parlo e non sorrido mai ma non sento nessuna paura, penso solamente alla mia situazione, a che cosa potrei fare, a che cosa sta succedendo, a dove saranno i miei camerati. 
I ribelli non mi fanno molte domande ed a quelle poche non rispondo mai, alcuni di loro dicono ridacchiano: "E tu saresti uno di quelli che volevano vincere la guerra ! Ora ti sistemiamo noi"
Si riparte: attraversiamo delle spianate erbose dove giacciono diversi serbatoi metallici lanciati con il paracadute dal nemico per rifornire i ribelli (armi, munizioni, viveri, soldi e tantissimo materiale di tanti tipi : benzina , radio trasmittenti, materiale da pronto soccorso, ecc.). 
Arriviamo quindi al comando delle Brigate Cairoli della divisione Nino Nannatti sul monte Pizzoc (alto 1565 metri) vengo accolto da ribelli minacciosi, che mi anticipano che fine mi faranno fare; in mezzo a loro vedo la nostra crocerossina accompagnata da un ribelle che porta una divisa con il distintivo della croce rossa ed ha un cinturone con la pistola. La nostra ausiliaria Elsa Paiola, che doveva essere di Bolzano, mi viene incontro e mi abbraccia , mi accorgo che piange (trovo strana la cosa ) mi sembrava quasi libera; gira con l’altro infermiere, ma è probabile abbia intuito che alla fine la uccideranno, come poi accadde. 
Aprono una porta chiusa a chiave e mi spingono dentro e mi trovo insieme a molti camerati che credevo a Vittorio Veneto, la gioia fu immensa: vi trovai Boro Omero e Luigi Zanovello, tutti e due di Montecchio Maggiore, facevano parte della mia squadra di pronto intervento ed era oltre un anno che stavamo insieme. 
Mentre cerchiamo di scambiarci notizie degli ultimi avvenimenti, si apre di nuovo la porta e veniamo fatti uscire nel corridoio, anche da un altra stanza escono camerati di Fregona poi veniamo raggruppati: i giovani volontari, come me, Omero e Zanovello, i vecchi volontari (fascistoni) e i graduati; poi tutti coloro che avevano un arma automatica, e infine un altro gruppo che non apparteneva ai gruppi chiamati. Ad uno ad uno veniamo avviati al piano superiore; una scala di cemento ci conduce in una stanza; in un angolo con un tavolo, dove stanno seduti tre capi ribelli: Figaro, comandante di guerra, Libero, comandante politico, il maggiore Neno ed un ribelle che scriveva a macchina, tre ribelli facevano da accusatori, al processo c’erano anche i miei due protettori. 
"Sappiamo che sei un fascistone, hai ammazzato tanti partigiani, sappiamo che tua sorella ti scriveva, dicendoti che eri stato bravo a farlo, anche tuo padre è un fascistone ed è stato podestà del tuo paese"; tante cose erano completamente false, altre erano più che logiche, ma dato che i ribelli erano completamente in mala fede, io negavo tutto (non fu una cosa molto lunga) più che un processo fu un litigio all’ultimo sangue. Poi Libero disse : "Fanne venire un altro”.
Venni fatto uscire e salendo una scala di legno, entrai nel solaio, dove trovai un gruppo di camerati , tra cui anche Omero e Zanovello; fra di noi ci si chiedeva che cosa sarebbe successo; avevamo constatato che alcuni venivano fatti salire dove ero io, altri fatti scendere a pian terreno e quando erano in tre, allontanati scortati da ribelli. 
Quando si capii che tutti erano stati processati, ovvero, subito il cosiddetto "processo della Montagna", ci si contò, eravamo 42, e tra di noi ci chiedevamo che fine faremo e dove erano gli altri camerati che completavano il numero del nostro presidio di Fregona (era per un totale di 137 camerati, compreso le due ausiliarie). 
Ma il dramma non era ancora terminato: sento discutere rabbiosamente tra due ribelli, erano stanziati nel comando Cairoli sul Pizzoc ed un gruppetto appena arrivato che voleva uccidere (anche loro) dei fascisti, poi si calmarono e dopo un po’ vennero chiamati tre di noi ( ora sapevamo che a gruppetti di tre venivamo portati a morire). 
Ma non era ancora terminata, perché partito il gruppo formato da tre camerati con i loro assassini, arrivò un altro gruppo e venne ripetuto il copione precedente; tra i tre chiamati vi era anche il mio amico e camerata Boro Omero, ci abbracciammo, mi consegnò una catenina d’ oro con la medaglia della Madonna per farla avere a sua madre e venne portato via.

Subito dopo partito il gruppo con Omero, venimmo fatti scendere nel piazzale, poi circondati dai ribelli. 
Scendiamo velocemente a Fregona e veniamo chiusi dentro al campanile (il mio campanile).
Dopo un po’ di tempo aprono il portone e vediamo un gruppo di donne e ragazze venute a portarci acqua da bere e qualcosa da mangiare (polenta, pane e minestra). I ribelli all’arrivo delle donne, rimasero molto sorpresi, qualcuno voleva rimandarle indietro, ma le donne rimasero e il portone venne aperto . 
Se pensiamo alle condizioni di vita della popolazione di Fregona, fra i loro disagi quello della distribuzione dei viveri (a causa degli attacchi dei ribelli i contadini non potevano lavorare la terra), ma la cosa più grave erano gli espropri che i ribelli facevano a chi possedeva generi alimentari e, con la scusa del mercato nero anche ai negozianti quando ricevevano il cibo da distribuire con la tessera; questi non venivano privati solo del cibo ma anche dei soldi.
 
Il 23 agosto 1993 sono ritornato al Bus de la Lum per partecipare alla funzione religiosa per gli infoibati. 
Vi parteciparono familiari dei miei camerati, alcuni abitanti della zona vennero a sapere che c ’era anche un sopravvissuto che era stato sul campanile di Fregona . 
Fui avvisato che un vecchio signore di un paese dell’ Alpago mi voleva parlare; (Adone Spert , di Spert , un paese dell’Alpago , di 83 anni ) mi volle raccontare la sua tragedia. Suo padre era proprietario di una macelleria a Spert ed i ribelli andavano da lui e prendevano la carne che riceveva da distribuire alla popolazione (non solo, ma si prendevano anche i soldi). 
Un giorno i ribelli seppero che era arrivata la carne, si recarono alla casa del macellaio (che era a tavola con la famiglia) e gli imposero di andare con loro in negozio; volevano che gli consegnasse la carne ed al suo rifiuto venne ucciso con una raffica di Sten davanti a moglie e figli. Al mattino presto la sveglia. I ribelli chiamano alcuni di noi e ci portano attorno Fregona, a raccogliere i nostri camerati (uccisi il 27 aprile) con un carretto che portavamo al cimitero di Fregona dove altri stavano scavando alcune fosse. 
Recuperati i corpi dei nostri camerati, cercammo di raccogliere gli oggetti che avrebbero dovuto avere (ma tutto quello che poteva avere un minimo valore, scarpe, anelli, accendini e soldi erano stati portati via dai ribelli). A Sanna,da morto, per potergli togliere la fede d’oro, gli spararono una raffica sulle mani; asportando le prime falangi gli sfilavano l ’anello, quando raccogliemmo il corpo del povero Sanna uscirono alcune parti della calotta cranica con il suo contenuto; i ribelli gli presero anche il portafoglio ma gli lasciarono in una tasca due lettere della famiglia dove gli avevano scritto "colpito al cranio"
Terminata questa mesta cerimonia, venne Don Raffaele Lot a parlare con noi, io gli diedi, con l’ aiuto di altri camerati, i nominativi dei sopravvissuti e quelli di tutti coloro a noi noti che erano stati infoibati. Verso mezzogiorno ci dicono che quando arriverà un mezzo di trasporto ci avrebbero trasferito a Vittorio Veneto, salvo. 

Come giudica oggi il periodo 1943-45?
Nonostante la guerra e le tremende conseguenze la mia più grande e meravigliosa esperienza. 


Prima ha parlato del “mio campanile”. Cosa vuol dire? 
Io con altri 10 camerati negli ultimi giorni di aprile del 1945 ero comandato di servizio sul campanile della Chiesa di Fregona, dove solitamente si facevano servizi di guardia della durata di 5-6 giorni con turni di quattro ore di guardia e otto ore di riposo, non si facevano turni fissi di modo che pochi sapevano esattamente quante persone vi erano di guardia sul campanile. 

Martedì 24 aprile sono di guardia sul campanile assieme ad altri 10 . 
A me tocca il turno dalle 10 alle 14, è un buon turno e si ripete anche nella notte. 
Alle 14, quando smonto, scendo in presidio a parlare con i camerati a cui sono più legato ( Boro, Zanovello e altri vicentini, ognuno di noi ha qualcosa da raccontare!). 
Non ci sono giornali, radio o altro, la posta di casa è rara, e così ogni notizia che si viene a sapere, viene analizzata e raccontata da noi . Alle 22, appena montato di guardia dal Col Pelà, una collina di fronte al retro del presidio, incominciano a spararci con i "BREN". 
Presidio e collina sono divisi da un torrente, che scende dal Cansiglio. Spari ed urla dei ribelli "arrendeve o ve copemo tutti quanti" ci chiamavano "fioi de cani" "sboraura porca" "ladri de pite", ci minacciavano di buttarci nel "Bus de la Lum", poi invitavano i loro ex compagni, che stanno con noi, a disertare, altrimenti gli facevano fare la stessa fine di noi volontari. 
Dal presidio si risponde che se si avvicinavano ancora un po' di metri potevamo dar loro la risposta a voce. Dal campanile il mitragliere cercava di puntare l'arma dove si vedevano le fiammelle dei mitragliatori nemici, e ogni tanto sparavamo qualche raffica, tanto per ricordargli che c’eravamo anche noi! 
Dopo un pò di tempo dall’inizio degli spari, si sente il "voop" del nostro mortaio da 81, il maresciallo Giorgi è un vero specialista, con la sua squadra si occupa del pezzo, tirano bombe ad alta capacità (2 kg circa di esplosivo ) e vengono sparati tre colpi uno dietro l’altro ,che vanno a cadere sul bersaglio (urla di gioia da parte nostra). 
I ribelli, per un paio di minuti, non dicono niente, poi si mettono a urlare: 
, quindi abbandonano le posizioni senza più sparare, probabilmente perché qualcuno è stato colpito Dal presidio invitano i ribelli a continuare ancora per un po’ la sparatoria, perché abbiamo bombe per tutti, ma la sfida non viene accettata.
Alcune squadre mandate in ricognizione, rientrano al mattino; hanno trovato molte tracce di sangue, ma nessun corpo ne feriti ne morti, se ce ne sono stati , li hanno già portati via. Poi tutto torna tranquillo . 
Mercoledì 25 aprile termino il turno di guardia alle ore 14.00, scendo dal campanile per la pulizia personale, per sapere se in cucina vi è rimasto qualcosa da mangiare, ma soprattutto per conoscere le ultime novità. 
Al di là della strada di fronte al presidio, vi sono della case con dei piccoli giardini e muri di confine. 
Da un pò di tempo i camerati, che hanno avuto un passato di "ribelli", sono visibilmente costernati (sappiamo che i civili che gravitano attorno al presidio li informano di quanto dice "Radio Londra"). 
Riteniamo quindi che hanno avuto brutte notizie (noi facciamo finta di nulla) soprattutto perché anche loro tengano fede alla parola data quando, rastrellati da noi, chiesero di aderire alla Repubblica Sociale per paura di finire nei campi di lavoro in Germania. 
Con noi si comportavano bene e da parte di noi volontari non vi erano contrasti con loro ; facevano il loro dovere e questo era importante. Quando venivamo attaccati, loro non rispondevano al fuoco, "per non uccidere i loro fratelli". Nessuno di noi fece mai rimostranze per questo atteggiamento , come pure non li accusammo di complicità con il nemico, anche se, da parte nostra, stavamo sempre sul chi vive. 
Nei mesi passati, fra Vittorio Veneto e Fregona, nessuno dei rastrellati fuggi durante le uscite sulle montagne del Cansiglio alla ricerca del nemico, anche se quelle erano le occasioni loro più favorevoli. Le tre o quattro defezioni in quel periodo, avvennero tutte al deposito di Vittorio Veneto . 
Durante la notte, circa alla medesima ora, appena montato di guardia, incominciarono a sparare da diverse posizioni, per farci intendere che sono sempre presenti; anche noi spariamo qualche raffica, e dal campanile lanciamo alcune bombe a mano. 
Poi tutto torna tranquillo.

 Giovedì 26 aprile alle 14,00, terminato il mio turno di guardia, lascio il campanile per il Presidio , per la solita " routine " e per vedere se è rimasto qualcosa in cucina da rosicchiare. 
Oggi c è una novità in attesa dello spostamento a Vittorio Veneto, (ma è già da una decina di giorni che si sente dire in giro) vengono distribuiti scarpe e vestiario, per chi vuole. 
Io scelgo un paio di scarponcini e un paio di calze di lana, poi, con i miei camerati, si fa il punto della situazione. 
Vediamo il gruppo dei partigiani nel giardinetto, in piena discussione e anche se non riusciamo a sentirli , capiamo che sono molto preoccupati, ma noi ci scherziamo sopra (alla nostra età nulla ci creava problemi ). Quando stavo per rientrare nel campanile, salgo la scalinata; dietro di me il maresciallo di fureria che si reca in chiesa. 
Sento arrivare una raffica di mitragliatore, alle mie spalle un urlo e vedo il camerata a terra colpito ad una gamba. 
Dal Col Pelà, ci stanno sparando brevi raffiche proprio contro di noi che stiamo salendo (vedo i colpi che arrivano perché schizzano schegge dai gradini) e si avvicinano alla mia posizione; alzo i tacchi e più veloce che posso arrivo in cima alla scalinata. Con la coda dell’ occhio vedo che i colpi mi stanno per arrivare addosso; sono in cima, pronto a svoltare sulla destra della balaustra e penso: "ora vengo colpito" ma gli spari si fermano, giro l’angolo e sono al riparo - proseguo sempre di corsa ed arrivo al campanile, dove i miei camerati stanno sparando. 
In seguito, quando ero prigioniero a Vittorio Veneto, alla caserma Gotti, un ribelle della Cairoli mi disse che era stato lui a spararmi con il "bren", dal Col Pelà, dove era appostato con un binocolo; sparò quando vide due di noi salire verso la chiesa; secondo lui ero stato fortunato perché mentre stavo per essere colpito il mitragliatore si inceppò ed era la prima volta che gli capitava . 
Il maresciallo ferito, che era di Arzignano, (credo si chiamasse Gasparoni) rimase alcune ore sulla scalinata, a causa di un cecchino ben appostato, che impediva ai soccorritori di aiutarlo . Solo con il buio fu possibile portarlo in infermeria ma con il buio aumentano anche gli spari , e solo dopo alcuni colpi di mortaio pesante, cessarono quelli provenienti dalla collina . Ora i ribelli stavano ben nascosti, quando sparavano. Da parte nostra, le risposte ai loro colpi erano limitate, per cessare del tutto prima di mezzanotte. 
Inframmezzati ai colpi, i ribelli lanciavano le solite urla, anche noi facevamo altrettanto: spari e scambio di epiteti; dalle 22.00 ero io di guardia sulla cima del campanile, alle due, quando smonto , mi butto sulla paglia e mi metto a dormire.
Verso le sei mi sveglio, mi guardo intorno e non vedo nessuno. Trovo strana la situazione, mi alzo e vado a controllare, prima al portone e lo trovo socchiuso; lo chiudo e salgo sulla cima del campanile: non c'è nessuno - le due mitragliatrici sono a posto, pronte a sparare, come vuole il regolamento, le munizioni e le bombe a mano, tutto è a posto, ma dei camerati, i dieci che erano con me e delle loro armi personali, non c e n’era traccia . Mi metto di guardia sulla cima del campanile, in attesa degli eventi . 
Venerdì 27 aprile verso le sette, arriva un camerata che porta pane e caffè per la colazione (caffè fatto con ghiande tostate, come si faceva una volta , misto ad orzo e ad un poco di zucchero ) . 
Gli spiegai la situazione venutasi a creare. Da lui so che ci prepariamo a rientrare a Vittorio Veneto . Verranno dei carri tirati da buoi per caricare zaini e materiali pesanti, mortai, mitraglie e munizioni. Rimaniamo d’accordo che io sarei rimasto di guardia in attesa di ordini, e gli chiedo di caricare anche il mio zaino, che è gia pronto sulla mia branda. 
Chiudo il portone, e salgo di vedetta sulla cima, dove domino il perimetro del presidio; vedo arrivare due carri agricoli trainati da coppie di buoi; i miei camerati caricano zaini e il materiale ingombrante , quando l’operazione è quasi ultimata, arrivano alcuni colpi di mortaio, che uccidono i buoi , nello stesso momento inizia un fuoco tremendo, pallottole che arrivano da ogni parte. 
La sparatoria proseguirà a ritmo alternato per tre giorni e due notti. Io ormai sono solo sul campanile senza ordini , con due gavette di caffè e il pane per dieci, viveri di riserva che erano in dotazione al posto di guardia, gallette e pane di segale tedesco, qualche galletta nostra, alcune scatole di carne, munizioni per mitragliatrici e bombe a mano in abbondanza , ma ero completamente solo e senza un idea chiara su quanto stava avvenendo. 
Dal campanile incomincio a sparare in tutti quei punti dove vedo movimenti, soprattutto sul Col Pelà ; sopra il campanile passavano pallottole e sembrava di sentire dei miagolii di gatti : ogni tanto le pallottole colpivano le campane. 
Da tutte le parti urla ed epiteti, minacce di morte e scambi vari da parte di tutti i contendenti. I ribelli , prima ci dicevano di arrenderci, poi ci elencavano cosa ci avrebbero fatto : dall impiccagione al salto nel "Bus de la Lum " i miei camerati li invitavano ad uscire allo scoperto , che gli avrebbero reso la pariglia. 
Ogni tanto i colpi diradavano sino a cessare, per poi riprendere con più foga. Dal presidio si rispondeva senza sprecare colpi. I ribelli erano ben appostati e non era facile colpirli, e così era anche per noi, poichè, l’arma che costringeva loro alla cautela era il mortaio da 81 magistralmente servito dal maresciallo Giorgi e con un deposito bombe ad alta capacità da poter resistere un mese.
Con le cariche aggiuntive, tutta la zona occupata dai ribelli era raggiungibile con l'arma , quindi, fino a quando vi erano munizioni, potevamo resistere ed anche rompere l’assedio . 
Questa situazione durò anche per tutta la notte del 27; dal campanile, ogni tanto, facevo partire brevi raffiche di mitraglia alternando l’uso delle due armi. 
Durante la notte, nel caso che il nemico si fosse avvicinato ai reticolati di protezione della base del campanile, lanciavo delle bombe a mano del tipo tedesco con il manico (ve ne era una buona scorta ), la riserva più grossa era formata da bombe a mano inglesi, che venivano chiamate " ananas", da noi prese nei rastrellamenti. Questo materiale, i ribelli, lo ricevevano con lanci paracadutati dagli aerei. 
L'ananas, bomba potente, aveva l’inconveniente riscontrato ai primi lanci dal campanile: quando battevano sul selciato, si rompevano essendo di ghisa ed a frattura prestabilita , poi scoppiava solo la capsula con il detonatore ma non la carica esplosiva. Per evitare questo levavo l’anello di sicurezza, lasciavo scattare la leva che sosteneva il percussore, contavo fino a tre e la lasciavo cadere; lo scoppio era molto rumoroso e scagliava schegge in un largo raggio. 
In mezzo a tutto questo sconvolgimento , ogni tanto mi appisolavo; in questo dormiveglia, ero però sempre sul chi vive: bastava un nonnulla per prendere l arma personale e controllare se tutto era a posto. 
Cosi per tutta la notte, tra dormiveglia, spari e lancio di bombe, arrivò il mattino del 28. 
Sabato 28 aprile verso l’alba sento un boato, guardo nella direzione di provenienza e vedo una nuvola di fumo e polvere: osservo con il binocolo e vedo che il ponte sul torrente che scende dal Cansiglio è stato fatto saltare; non vedo altro al di fuori di questo . 
Dopo un pò un rumore proviene dalla strada che sale da Vittorio Veneto: un‘autoblindo sta venendo verso Fregona; penso che siano i camerati che vengono in aiuto. Arrivato nelle vicinanze del ponte, si ferma. Ritengo che il ponte sia molto danneggiato ma un movimento di persone nelle sue vicinanze allarma i camerati dell’ autoblindo, che sparano alcune raffiche con la mitragliera da 12,7, si spara e tutti quanti veniamo coinvolti . 
L'autoblindo fa marcia indietro e ritorna sui suoi passi; ritengo che vada a chiamare rinforzi. Si ricomincia: spari, urla, colpi di mortaio. I ribelli ormai occupano tutte le frazioni del paese attorno al nostro presidio, sparano con tutte le armi ed anche se potrebbero raggiungere le nostre postazioni con i mitragliatori " bren", è però difficile colpirci. 
Con le armi leggere, Sten, o i mitra, vorrebbero intimorirci, facendo rumore; sparano anche con il Piat, che a distanza non serve a niente. 
Così per tutto il giorno, come il 27. La sparatoria si sussegue a ritmi alternati: vi erano momenti di pausa, poi si riprendeva, i ribelli erano da tutte le parti, anche se a distanza di sicurezza: tutte le via d accesso erano sotto controllo. Sparatorie e guerra dei nervi, urla minacce, epiteti, inviti alla resa, e poi ancora colpi e noi sempre a rispondere con parole e spari ma soprattutto con colpi di mortaio da 81 m / m. 
I ribelli, che con alcuni colpi di mortaio, il 27, avevano ucciso i buoi, non lo usano più, perché forse non hanno più bombe. Verso sera, ad un certo momento, incomincio a sentire delle urla partire da lontano e che piano piano si avvicinano; gli spari cessano; cerco di capire cosa succede, ma non riesco ad afferrare il senso delle parole . 
Poi, ad un tratto, sento urla dal basso del campanile; dal mio punto di osservazione guardo nella piazza che sta tra il campanile e la chiesa, intravedo Don Raffaele Lot, con una bandiera bianca, che si rivolge a quelli del campanile, urlando: " Fratelli, la guerra è finita, il Duce è morto, arrendetevi, consegnate le armi e vi manderemo a casa ". A questo punto, dopo due o tre inviti alla resa, sento il mio capitano che mi urla : "Brambilla, ammazza il prete "; abbasso la mitragliatrice, puntata verso il Col Pelà, e sparo alcuni colpi verso il parroco ma è riparato da un angolo della chiesa, e non mi riesce colpirlo. 
Lascia la sua posizione e sento che invita i miei camerati del presidio ad arrendersi, che avranno salva la vita. Poi riprendiamo a sparare; con il buio Don Lot ritorna ad invitarci alla resa, dal presidio il fuoco delle armi si affievolisce, e poi non sento più sparare; ma alcuni spari arrivano dalla campagna e dalle colline che dividono Fregona da Vittorio Veneto, e ci sono alcuni ribelli che sparano contro il campanile, al che, ogni tanto, lancio qualche bomba a mano e faccio partire qualche raffica di mitraglia. 
Dal presidio non sparano più, sono convinto che i miei camerati , giunta l’oscurità, siano riusciti a ripiegare su Vittorio Veneto e penso che con i rinforzi ritorneranno a liberarmi. Con il buio, tra il dormiveglia, lanciando ogni tanto qualche bomba , e facendo qualche scarica di mitraglia, faccio capire che siamo sempre in allerta; dalle frazioni di Fregona, urla, canti e spari; ogni tanto qualche pallottola colpisce le campane, ma nulla di più. 
Domenica 29 aprile con la luce incominciarono ad arrivare raffiche anche di armi leggere, nessuno però si arrischia ad oltrepassare i cavalli di Frisia che circondano il campanile: se ne stanno al riparo tra le abitazioni. Da lontano sento suonare le campane (è una cosa strana) solitamente suonano per gli allarmi. Non so più cosa pensare, in cuor mio spero che i miei camerati arrivino a liberarmi , spero di vedere qualcuno attraverso le colline che ci dividono da Vittorio Veneto. 
Poi, al di là delle colline verso la pianura, mi arriva il rumore di esplosioni, guardando con il binocolo, vedo un carosello di aerei; capisco che stanno mitragliando una colonna di autocarri, ogni tanto una grossa esplosione mi fa intuire che è saltato un carro di munizioni.
In mezzo a tutta questa confusione spero solo che mi vengano a liberare, so che i camerati della mia squadra, sapendo che sono rimasto sul campanile, faranno di tutto per soccorrermi . Ad un certo punto un rumore di aereo attira la mia attenzione: è uno Spitfire, penso che l’ abbiano chiamato i ribelli per fare bombardare il campanile , ma quello è un caccia, penso che al massimo mitragli. Non posso far nulla ( la mia arma personale, uno Sten, non serve); come sta per passare sopra il campanile mi acquatto, augurandomi che, sparando, non colpisca le bombe a mano , altrimenti salto per aria. 
Mi passa sopra e non fa nulla; per paura che i ribelli ne approfittino per raggiungere il portone e farlo saltare , incomincio a lasciare cadere bombe dall’alto ; controllo i reticolati e vedo che sono tutti al loro posto.
Non mi resta che attendere . Non so più cosa pensare: il fumo indica che vi è una lunga colonna di mezzi che bruciano ; aerei non ne sento più, da tutte le parti sparano, sento urla, canti. Sembra quasi che non si occupino più del campanile, forse ritornerà l’aereo a mitragliare (i ribelli, che non sanno che sono solo, non vogliono rischiare). 
Sopraggiunge la sera e non è accaduto nulla, non so più che fare, che pensare, forse i miei camerati, calato il buio, tenteranno di liberarmi, cerco di stare attento a qualsiasi voce e segnale che mi possa arrivare. 
Non so quanto tempo sia passato; a differenza delle altre notti, non chiudo occhio, più passa il tempo più incomincio a credere che devo fare qualcosa al più presto. 
Urla , spari e canti si affievoliscono; ritengo che prima dell’alba debba fare qualcosa , ormai non spero più che mi vengano in aiuto; decido; esco dal campanile per cercare di attraversare le colline e raggiungere Vittorio Veneto (danneggio le mitragliatrici, levando l'estrattore e buttandolo nei prati sottostanti). Scendo al portone, apro, ascolto per un attimo, poi con lo Sten impugnato, esco attraverso la piazza , sposto un cavallo di frisia mobile, e giro attorno alla chiesa . 
Mi avvicino ad una porticina laterale ed ascolto con il cuore che mi batte in gola ; appoggiando la mano sulla maniglia della porticina, questa si apre . Aspetto un momento, poi decido di entrare in chiesa; non sento nessun rumore particolare, decido di fermarmi in chiesa. Comincio a riflettere sul da farsi, mi sento a disagio, per il fatto di essere armato in luogo sacro con l' intenzione, se capita di sparare, mi sembra un atto blasfemo . 
Porto un elmetto con la morte, un porta caricatore e lo Sten, vicino ad una grossa cassapanca nascondo l’arma, i caricatori e l’elmetto, poi cerco un posto per rifugiarmi in attesa di decidere. 
Mi avvicino ad un altare: è quello della Madonna; c è la possibilità di girarci intorno: guardo bene e vedo che c è un piano di marmo su cui mi posso sdraiare; salgo sopra e mi distendo. In quel momento sento alcuni spari da lontano; una pallottola colpisce la vetrata che sta proprio sopra le spalle della Madonna. Non so cosa fare, penso: " forse mi hanno scoperto o mi hanno visto che entravo in chiesa; poi disteso sulla lastra di marmo, crollo dal sonno ( tutta la tensione di questi giorni sta scemando), ormai non me ne frega più niente: mi metto a dormire, poi si vedrà . 
Lunedì 30 alle sei sento bisbigliare, apro gli occhi e vedo candele accese sull’altare maggiore; il parroco che dice la messa e quattro o cinque donnine vestite di nero, nella mia situazione non so più che fare : attendo che la funzione sia terminata . 
Le donne lasciano la chiesa; dopo un po’ il parroco esce dalla sacrestia, scende dall’ altare, tenendosi in mezzo alla navata, quando si trova quasi sotto a dove mi trovo, lo chiamo sottovoce : " Padre , Padre ". Si ferma visibilmente scosso e mi chiede in dialetto veneto chi sono ( chi seo ) e io rispondo: " Padre, so el bocia", viene verso l’altare e spaventato e mi chiede cosa faccio . Rispondo che devo andare a Vittorio Veneto ma, sempre nel suo dialetto veneto, mi dice che non posso, perché uccidono tutti quelli che hanno una divisa . 
Mi dice di non muovermi, e mi rassicura che tornerà e vedrà cosa può fare; si allontana , attendo il suo ritorno ma il tempo sembra non passi mai, e il parroco non si vede. Senza un orologio non si ha idea del tempo, sembra un eternità da quando abbiamo parlato. 
Comincio a rimuginarci sopra : forsa ha paura e non torna, oppure lo dirà ai ribelli. Ad un tratto persone che parlano a voce alta entrano in chiesa, intuisco da come si comportano senza rispetto del luogo, che sono ribelli . Uno sta raccontando che ieri un tizio ha trovato in chiesa una pistola tutta nichelata, ridono e li sento muovere, intuisco che stanno perquisendo la chiesa; ad un tratto si fa silenzio, immagino subito che hanno trovato la mia roba, parlano sottovoce, e uno dice: forse è in sacrestia. 
Sbircio tra i vasi e i candelieri dell’altare ed intravedo due ribelli armati di mitra davanti all’altare di fronte a quello dove sono nascosto. Uno di loro, con uno Sten, sta passando proprio davanti a me, quando sta per uscire dalla mia visuale, si ferma di colpo e raggiunge gli altri due e si appostano dietro alla balaustra di marmo all’altare di fronte al mio. 
Si mettono ad urlare: " Fermo, esci con le mani alzate, se fai una sola mossa sbagliata ti accoppiamo!" Conoscendoli per quel che erano, mi alzo lentamente, restando dietro alla statua della Madonna; facevo vedere solo la mani, poi mi sposto e scendo dall’altare, mi dicono di andare verso di loro, in mezzo alla chiesa, mi circondano, due armi puntate su di me, e uno mi perquisisce, poi spingendomi con le canne delle armi, mi minacciano di morte se faccio una mossa sbagliata.
Usciamo sul sagrato. Sparano alcuni colpi in aria, poi urlano: 
"Ne abbiamo preso un altro".

fonte:  www.ilduce.net/foibe.htm                                          

Inserito da Cristina Genna Blogger

 

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