Novembre 1945, il Nord Italia è sotto l’occupazione anglo-americana. L’avvocato Massimo Gianoli, 65 anni, proprietario della cascina Simonetto, aiuta tutti quelli che si rivolgono alla sua cascina per lavorare. Aiuta anche Franco Saporito, siciliano di Mezzojuso, uno dei tanti che si aggirano alla ricerca di un’occupazione onesta, per un pasto, un tetto e qualche lira.
Saporito, appena ventenne, è assunto in estate per “fare la stagione” del grano e del granoturco. Il 17 novembre si licenzia, dicendo che ha ricevuto un’eredità e deve ritornare al suo paese. Tre giorni dopo la sua partenza, nella notte scompaiono nel nulla l’avvocato Gianoli, la governante Teresa Delfino, il mezzadro Antonio Ferrerò e la moglie Anna Varetto con il loro genero Renato Morra, due donne impegnate nei lavori di casa quotidiani, Fiorina Maffiotto e Rosa Martinoli, e un nuovo lavorante, Marcello Gastaldi. Alle otto persone vanno aggiunte Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, il primo marito di Fiorina e il secondo di Rosa che, preoccupati per il ritardo delle mogli, si erano recati alla cascina per cercarle.
Il primo a rendersi conto che qualcosa d’insolito è accaduto, è Alfredo Garrone che come ogni mattina, il 21 novembre, arriva alla cascina per ritirare il latte da vendere nel suo negozio di Villarbasse. Immediatamente è colpito dall’assenza della luce del “faro” che abitualmente illuminava il buio della campagna. Tutto è avvolto dalle tenebre, l’unica luce proviene dalla cucina dei Ferrerò. Si sente solo il lamento delle mucche non munte. Giunge alla cascina anche Berto Reinaudo, uomo di fiducia dell’avvocato Gianoli: lui conosce il modo di entrare attraverso un’apertura della recinzione. Garrone così descriverà la prima immagine vista entrando nella casa: «In cucina c’era un bambino che piangeva, di circa tre anni, nipote del fittavolo. Dappertutto un grande disordine: piatti rotti, schizzi di bagna cauda sui muri, cassetti aperti: tutto faceva pensare che qualcosa di grave fosse successo. Mi precipitai in paese, presso l’unico telefono esistente a Villarbasse per avvisare i carabinieri di Rivoli e dal quel momento la nostra vita non fu più quella di prima».
Iniziano subito le ricerche nei boschi circostanti: dieci persone non possono sparire così nel nulla! È rinvenuto un cappello, al suo interno ci sono tracce di materia cerebrale. Villarbasse è assediata dai giornalisti. Non mancano ipotesi e indiziati, ma mancano le presunte vittime. Le ricerche coinvolgono i carabinieri di Rivoli e Venaria, e la Military Police degli alleati. Il 29 novembre, casualmente viene sollevato il coperchio del pozzo che consente l’accumulo dell’acqua per alimentare l’intero complesso della cascina: nel suo interno ci sono tutte e dieci le vittime. Nessuna di loro è stata uccisa con armi da fuoco, sono stati ridotti in fin di vita a bastonate, mutilati e gettati ancora vivi nel pozzo dove hanno continuato ad agonizzare fino al sopraggiungere della morte.
All’Istituto di Medicina Legale di Torino, le perizie rivelano che le vittime hanno ricevuto almeno un colpo alla nuca per ciascuna; il cadavere dell’avvocato Gianoli presenta però molte ferite: gli assassini si sono accaniti su di lui con furia bestiale. E’offerto un premio di mezzo milione di lire a chi fornisce notizie utili: una somma straordinaria per l’epoca.
Arriva una segnalazione: in via Rombò, a Rivoli, i carabinieri rinvengono in un alloggio un cappotto militare con una macchia scura (forse sangue), un paio di scarponi infangati e un frammento di carta annonaria con il numero ancora leggibile interamente. La carta appartiene a Giovanni D’Ignoti di Mezzojuso: da lui si risale ai complici che provengono tutti dallo stesso paese: Francesco La Barbera, Giovanni Puleo e Pietro Lala alias Francesco Saporito. Li inchiodano la presenza di fango sotto gli scarponi del D’Ignoti, identico a quello della cascina di Villarbasse.
II 24 marzo tre membri della banda del massacro della Simonetto sono arrestati. È ancora latitante il quarto, il più colpevole: Francesco Saporito alias Pietro Lala di ventitré anni. Gli agghiaccianti particolari del massacro vengono alla luce: la sera del 21 novembre Saporito-Lala si era introdotto di nascosto nella cascina in compagnia dei suoi complici, a volto coperto per non essere riconosciuto. Ma Teresa Delfino lo riconobbe, gridando a gran voce il suo nome: fu la condanna a morte. Tutti furono picchiati selvaggiamente con un bastone e, con un blocco di cemento ai piedi, gettati nel pozzo. Gli assassini si portarono via quarantamila lire e dei salami che consumarono in campagna, durante la fuga. Le indagini chimiche dell’ufficio d’igiene definirono sangue umano la macchia del pastrano, e della stessa composizione chimica del terreno della cascina Simonetto il fango delle scarpe.
Il 4 marzo 1947, alle 7.41 presso il poligono militare delle Basse di Stura, zona periferica di Torino: Giovanni D’Ignoti, Francesco La Barbera, Giovanni Puleo sono fucilati per la strage di Villarbasse. Tra i condannati manca il quarto componente della banda, Francesco Saporito/Lala, la “mente” del gruppo: per lui la morte è giunta qualche mese prima, l’11 aprile, in una strada di Pizzo di Case, frazione di Mezzojuso, in provincia di Palermo, dove era rientrato dopo il delitto.
Nel mese di dicembre in Italia la pena di morte sarà abolita per i “delitti comuni”: sarebbe bastato un ritardo, un intoppo giudiziario, un cavillo e gli autori avrebbero avuto salva la vita.
Inserito da Cristina Genna Blogger
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