era il pomeriggio del 4 maggio 1871. Al cantiere di Atzuni, nella miniera di Montevecchio, un gruppo di donne e di bambine camminavano verso un capannone con lo sguardo a terra, annichilite dalla stanchezza. Avevano spaccato e insaccato pietre per tutto il giorno con mani ormai ruvide e callose. L’avevano fatto, come sempre, sin dall’alba, in rigoroso silenzio.
Il “caporale” non tollerava che si chiacchierasse e la punizione sarebbe costata l’intera paga di una giornata. Il ricatto del pane. Un costo troppo caro per chi lavora per sopravvivere.
Trascinavano le loro esistenze dentro abiti ruvidi e consunti, svuotate da una fatica che annientava ogni slancio di vita. La strada per tornare a casa era molto lunga. Ogni giorno arrivavano da Arbus e Guspini a piedi. Erano donne disperate. Vedove di minatori, mogli con troppi figli da sfamare lasciati a casa ad accudirsi tra loro, bambine di famiglie in cui l’infanzia finisce il giorno in cui si è in grado di rispondere agli ordini dei capiservizio.
«Se dopo le otto, dieci ore la stanchezza impediva di tornare a casa, si poteva restare al cantiere e riposare sulle brande, dentro dormitori senza servizi igienici né alcun tipo di confort – racconta Iride Peis Concas che nel suo libro “Donne e Bambine nella miniera di Montevecchio” (Pezzini editore) ha ridato un nome e un volto a quelle donne che la storia e la memoria popolare aveva cancellato troppo presto, relegando all’oblio le loro esistenze come se i fatti accaduti fossero routine - Quel pomeriggio erano trenta le donne e le bambine che rimasero nel cantiere a riposare sui giacigli. Sopra il dormitorio c’era una grossa vasca d’acqua che serviva per lavare i minerali, si ruppe e fece crollare il tetto. Morirono 11 donne.La più anziana, Rosa, aveva cinquant'anni e la più giovane era una bambina di undici, Anna».
L’Archivio Storico Minerario IGEA, attraverso i suoi 25.897 faldoni, 2.500 immagini, 2.582 documenti, migliaia di cartografie, disegni e un numero incalcolabile di materiale cartaceo, racconta questa e centinaia di altre storie delle vite che hanno gravitato attorno alle miniere, rivelando una presenza femminile poco nota, ma così forte da ridisegnare l’immaginario collettivo che vuole le miniere un luogo popolato solo da uomini. «In effetti le prime donne minatrici si sono avute solo vent’anni fa e la ragione per cui prima non lo facevano era anche legata alla superstizione – racconta l’archivista e ricercatore dell’IGEA Roberto Caddeo, attorniato dai faldoni di un archivio che, per la mole del materiale conservato, è considerato la raccolta di documenti di carattere minerario e industriale tra i più importanti in Italia e tra i più consistenti in ambito internazionale - Così come nelle navi, in miniera si riteneva non potessero lavorare né le donne né i preti. Tuttavia erano presenti molte donne che svolgevano l’attività di cernitrici, bardellavano, vagonavano, spaccavano, grigliavano e insaccavano il minerale pulito. Un’attività che svolgevano anche le bambine».
I documenti dell’Archivio raccontano che alla fine dell’Ottocento erano centosettantadue le donne impiegate nei lavori dei cantieri. I bambini erano un centinaio. Avevano tra i 10 e i 15 anni ed erano ricercati perché costavano poco e garantivano il lavoro senza discutere. Lavoravano dalle nove alle dieci ore al giorno in inverno e fino a dodici ore d’estate. Solo nel 1886 una legge limitò il lavoro dei bambini e delle bambine tra i nove e i dodici anni alle otto ore giornaliere, ma senza alcun riposo settimanale che fu istituito solo nel 1907.
«Le donne lavoravano le stesse ore degli uomini, ma producevano il doppio e venivano pagate esattamente la metà», racconta Iride Peis Concas richiamando documenti che in modo glaciale riportano i fatti a cui il suo libro ha ridato umanità.
“Dalla perizia Giudiziale eseguita sul posto non risulterebbe colpa né imprevidenza incarico di chicchessia”, cita il rapporto del Sottoprefetto di Iglesias, Ruminelli, svelando che di quelle morti nessuno pagò per l’incuria di aver costruito maldestramente una vasca traballante sopra il tetto.
«Le storie più toccanti emergono dalle lettere – racconta Pietro Tocco, direttore dell’Archivio che, grazie al lavoro di ricerca, di salvaguardia e conservazione dei documenti dell’IGEA, ha permesso di far riaffiorare dal buio testimonianze vive, racconti autentici di un territorio che non si mostra più solo sotto l’aspetto della produzione mineraria, ma dal punto di vista narrativo, trasformato dall’archivio in bacino di storie – Una tra le più toccanti è quella che emerge dalla lettera di una ragazza con cui lei si rivolge al direttore. Gli racconta in quale tragico stato economico la morte in miniera del suo giovane promesso sposo la lasciò, poiché si erano indebitati per acquistare i mobili della casa in cui sarebbero andati a vivere dopo l’imminente matrimonio e si ritrovava a non avere nemmeno il denaro per il funerale. Gli chiedeva aiuto e lui, in tutta risposta, fece fare un’indagine all’amministrazione la quale verificò che il giovane aveva anche dei debiti con la cantina della miniera dove i minatori erano costretti ad acquistare. Il suo aiuto si limitò a sanare questo debito».
Alcuni documenti raccontano anche di storie più colorate, come le lettere con cui i sorveglianti denunciavano alla direzione quando qualche ragazza si introduceva nei cameroni degli uomini.
Tuttavia il quadro che emerge è «di sofferenza e profonda tristezza – spiega Tocco – Molte donne entravano in miniera da ragazzine e la loro gioventù veniva completamente sacrificata. Svolgevano un lavoro pesantissimo stando lontane dai loro bambini e quando tornavano a casa dovevano ancora occuparsi di tutto e stiamo parlando di famiglie anche con dieci figli». Figli che per alcune erano frutto «di “imbrogli” dei capiservizio – spiega Peis – “M’ari imbrogliau”, dicevano, riferendosi alle false promesse a cui credevano, concedendosi per amore o nella speranza di poter avere una vita migliore che si concludeva, invece, nel dover accudire un figlio da sole».
Oltre ai documenti, a raccontare le storie delle donne delle miniere ci sono anche testimonianze viventi, come Vera Agati, classe 1928, che in un video nel sito dell’archivio (www.igeaspa.it) racconta di quando da bambina trascorreva intere notti nei barconi che da Carloforte arrivavano a Buggerru per portare i galanzè, come chiamavano gli operai.
Un altro archivio vivente è zia Rosina, una tenace ex cernitrice di 89 anni che ha guidato la recente protesta delle lavoratrici del geoparco che hanno occupato le gallerie di Porto Flavia. «Io so cosa vuol dire la miseria e la fame. Sono una cosa brutta. Oggi dobbiamo lottare perché tutto questo non accada più», dice.
E ricordando le undici donne e bambine dimenticate e le condizioni in cui vivevano e lavoravano, le fa eco Iride Peis “Finché nel più perduto angolo della terra ci sarà una donna che piange per i suoi diritti calpestati è obbligatorio non tacere”.
Inserito da Cristina Genna Blogger
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