Nella località di Bonagia, sulla parete rocciosa ai piedi del rilievo collinare che guarda sulla strada statale 187, di fianco la suggestiva grotta Emiliana, nell’omonima contrada, a circa cinquanta metri sul livello del mare, si trova la meno conosciuta grotta di Polifemo, un sito che per quanto si dirà risulta essere di incomparabile interesse archeologico.
La grotta presenta due grandi spazi al suo interno, suddivisi da un enorme stalagmite, la sua estensione in profondità arriva fino a sette metri e segue il piano del soffitto basso, che digrada sul fondo.
La particolarità unica della grotta è un complesso di pittogrammi rupestri realizzati in ocra rossa, tra cui spicca per importanza un labirinto, costituito da sei volute concentriche, quasi ellittiche, di un diametro massimo di trenta centimetri. Vicino il labirinto si può osservare il pittogramma di una figura antropomorfa, sempre in ocra rosso, costituito da una testa stilizzata, due braccia alzate, la cui mano sinistra regge uncorno dipinto con un colore scuro; completa la figura una lunga tunica “a campana”.
L’immagine in questione, molto somigliante alla “Venere di Laussel”, una delle molte raffigurazioni paleolitiche, rinvenute in Francia e nei siti di mezza Europa, impersonava verosimilmente la figura universalmente nota della Grande Madre, dalle tipiche forme prosperose, simbolo di fertilità ed abbondanza.Completano il quadro dei pittogrammi della grotta, un gruppo di figure, vicine alle precedenti, raffiguranti un toro, realizzato in stile orientale, due code di pesci, presumibilmente tonni, emergenti da una chiazza di colore rosso ocra e numerose piccole macchie rosse, che alcuni studiosi hanno interpretato come la raffigurazione di un cielo stellato o forse addirittura di costellazioni.
L’elemento in assoluto più importante e caratterizzante, appartenente al complesso dei pittogrammi presenti nel soffitto della grotta di Polifemo, alla luce dei più recenti studi e ricerche archeologiche, risulta essere senza dubbio il pittogramma arcaico del labirinto.
Questo venne scoperto nel 1986 da Giovanni Vultaggio, presidente dell’Archeoclub di Trapani. Il pittogramma, che rappresenta un labirinto arcaico di tipo classico, è stato datato dall’archeologo Sebastiano Tusa, intorno al 3000 a. C. Il pittogramma risulta essere addirittura anteriore rispetto ai più antichi esemplari di labirinti, rinvenuti nella regione della Carelia e nell’area del Baltico, a suo tempo datati dagli archeologi russi al III-II millennio a. C., si attesterebbe, quindi, fino a prova contraria, come ha sostenuto Jeff Saward, una delle massime autorità in fatto di Labirinti, come il più antico pittogramma di labirinto mai rinvenuto al mondo.
Gli autori dei pittogrammi, seguendo i ritrovamenti archeologici limitrofi, potrebbero appartenere al popolo dei Pelasgi, di origine mediorientale, o essere gli stessi Elimi, che proprio intorno al 3000 a. C. raggiunsero la Sicilia occidentale dalla Penisola Anatolica.
L’ubicazione del sito della grotta di Polifemo pare presenti un singolare fenomeno di luci che, al tramonto del solstizio d’estate, colpiscono la grotta fino al suo fondo, inondandola di raggi giallo-rossastri, che rendono il contesto particolarmente suggestivo e carico di energia.
L’osservazione di questo fenomeno induce a pensare che gli antichi abitanti della zona, considerassero la grotta un luogo sacro e che, consci di questo spettacolo di luci al solstizio, pensassero di dover svolgere proprio in questo sito i loro riti funebri, operando perciò le loro pratiche religiose in stretta relazione con il più antico culto del disco solare.
Si può pertanto immaginare che tutto nella grotta fosse stato posto in funzione cultuale, per una pratica celebrativa archeoastronomica del sole, che nella sua chiave allegorica, mediante l’immagine del labirinto, voleva simboleggiare la fertilità, la rinascita e quindi la vita stessa.
Come è stato osservato, infatti, il pittogramma del labirinto della Grotta di Polifemo, a differenza dei labirinti classici più tardi, come quelli micenei ed etruschi, possiede, non sette volute concentriche, ma solo sei, come i sei mesi che intercorrono tra il solstizio d’inverno e quello d’estate.
In questo senso anche i tre corpi circolari a forma di occhio, posti a diverse altezze ed inglobati nel labirinto, possono rappresentare la scansione dei tre mesi stagionali, in collegamento all’altezza massima del sole sul piano dell’orizzonte che in primavera appare più alto e quindi ascendente e che in estate appare più basso e discendente.
Queste interpretazioni del labirinto, ne fanno, in ultima analisi, una sorta di calendario astronomico solare che, segnando il corso delle stagioni, conduceva l’uomo al solstizio d’estate, quel particolare giorno dell’anno, il 21 giugno, in cui nella grotta si raggiungeva il climax di questo antico culto dimenticato. L’alternanza di questi cicli stagionali, a cui gli uomini del paleolitico erano molto legati per una ancestrale sensibilità e attenzione, simboleggiavano il ciclo della nascita, in relazione ai cicli della semina, dei cicli lunari ed ai tempi della gestazione umana.
Ragion per cui, il labirinto stesso, nella sua più potente immagine di spirale, rappresentava arcaicamente l’apparato viscerale femminile, e simboleggiava per analogia la generazione umana, nel percorso che conduce l’uomo dall’oscurità della gestazione intrauterina alla luce del parto.
Queste immagini simboleggiano nella loro forma più primitiva la vita stessa, come nell’effige della Grande Madre, la dea Terra, quale contenitore naturale del seme che fuoriesce dalle sue viscere, e perciò la dea Cibele dai larghi fianchi, legata a doppio filo all’iconica immagine della Venere ericina, la dea dell’amore e della vita, nelle cui vicinanze, non a caso, sorgeva in passato il suo più celeberrimo tempio.
a cura di Michele Di Marco