leggende della dea Ericina ( erice trapani)

leggende della dea Ericina ( erice trapani)

Il mito della Venere Ericina

prima ancora che fosse dedicato dai Fenici ad Astarte, quello che fu il "thémenos", il santuario di Afrodite, il tempio di Venere Ericina, era il luogo della dea dell'amore. Un luogo che avrebbe attirato su questa vetta popolazioni e dove, secondo Diodoro Siculo, Erice, figlio di Bute. uno degli argonauti di Giasone, e di Afrodite stessa, aveva eretto il tempio dedicato alla propria madre e fondato la città., il culto della Venere ericina, a cui i marinai di passaggio erano particolarmente devoti, giovani prostitute sacre alla dea, crebbe insieme alla sua fama e alla sua ricchezza: Tucidide fa riferimento a "i doni fatti alla Dea, anfore, coppe e ricche masserizie..." dai pellegrini e Diodoro Siculo attribuisce a Dedalo, fuggito da Creta, la creazione di un ariete d'oro dedicato ad Afrodite. In ogni caso, è chiaro che un luogo come Erice, in una posizione geografica del tutto privilegiata per l'ampissima visuale, oltretutto fortificato e protetto efficacemente, dovesse assumere il potere che l'interesse dei popoli che si succedettero attribuirono al santuario-fortezza.
sconfitti i Cartaginesi, si "appropriarono" del luogo e del culto della Venere, da tempo diffuso in molte città mediterranee, ricostruirono il tempio sulle rovine lasciate dalla guerra, riportando Erice agli antichi splendori, e fecero erigere a Roma, prima, un piccolo tempio sul colle Capitolino e, nel 181 a.C., uno più grande presso Porta Collina, dedicati alla dea ericina. La considerazione dell'Impero per Erice fu tale da stabilire di porre, a protezione del thémenos ericino, una guarnigione di soldati e che le città più fedeli della Sicilia dovessero sostenere anche economicamente il culto. Addirittura, la città e il suo territorio verranno citate da Virgilio che scrive di come Enea si fermò in questi luoghi e volle seppellire vicino al santuario il padre, Anchise, prima di veleggiare per il Lazio dove fondò Roma: questo mito legò, quindi, di "parentela" elimi e romani, entrambi discendenti da Venere, madre sia di Enea che di Erice...
A lei, contribuendo ad arricchire il tesoro del tempio, offrirono doni governatori, magistrati, alti militari fino a che, diminuiti i traffici marittimi e con essi la solidità economica della Sicilia, il culto, già impoverito dal fatto di essere praticato in quello che era divenuto un centro militare, fu debellato dall'avanzare del cattolicesimo.
Dopo il periodo romano, quello del massimo splendore, ad Erice si succedettero bizantini, saraceni - con questi ultimi si chiamò Gebel al Hamid - e normanni: Ruggero d'Altavilla battezzò il borgo e il territorio Monte San Giuliano, in onore del Santo che era intervenuto, a cavallo e con una muta di cani, a dare man forte ai suoi soldati contro gli arabi. Che con rimpianto lasciarono la rocca e, soprattutto, le donne di Venere: "che Allah il misericordioso le faccia schiave dei Musulmani" scrisse, nel 1185, Ibn Giubayr.



 

Erice: la leggenda di Berretta Rossa

 

La leggenda di Berretta Rossa nasce ad Erice e si lega ai luoghi del cosiddetto “Quartiere Spagnolo”, un impianto architettonico di natura militare, i cui lavori di costruzione iniziarono nel ‘600 ma non furono mai ultimati. La costruzione nacque in origine nel progetto di ospitare le truppe spagnole di stanza ad Erice durante un periodo di presidio militare. Forse il fatto che i lavori di un così sfarzoso progetto urbanistico-militare, senza un’apparente ragione, non vennero mai portati a termine e forse anche il fatto stesso che le truppe spagnole abbandonarono improvvisamente quell’importante sito militare mentre era ancora in costruzione, alimentarono nella fantasia dei locali la suggestione della presenza ad Erice di un luogo maledetto, infestato da un fantasma. Il fantasma in questione sarebbe quello di un soldato spagnolo, impiccato sullo spiazzale antistante la caserma, poi ribattezzato simpaticamente Berretta Rossa. Secondo quanto si racconta un giovane soldato spagnolo si trovò ad importunare impudentemente la ragazza di un uomo ericino ed una sera l’uomo trovò il soldato spagnolo nel cortile della fidanzata intento a farle la corte. L’ericino, infuriatosi, intimò al soldato di non farsi mai più rivedere pena la morte, ma questi in preda ad un raptus omicida lo assalì pugnalandolo al petto. Per questo misfatto il soldato spagnolo venne subito rinchiuso in carcere e condannato a morte per impiccagione. Il giorno dell’esecuzione, a novembre, sotto un cielo minaccioso, nero, il condannato si presentava al patibolo, davanti ad un pubblico di spettatori e curiosi, con la sua militaresca berretta rossa ancora sulla testa. Quando il boia ebbe l’ordine di eseguire la sentenza, il violento strappo della corda nel tramortire il soldato alla nuca spostò sull’orecchio destro la sua piccola berretta rossa. L’impiccato ormai esamine aveva assunto, in una macabra scena tra luci ed ombre, l’inquietante posa di una figura caravaggesca, e proprio quando i presenti stavano lasciando il posto, il corpo del soldato ebbe improvvisamente un fremito, un sussulto e dalla sua bocca fuoriuscì uno stridente sibilo, poi tutto tacque ed anche il corpo cessò di tremare, intanto un vento sinistro venuto dal nulla aveva tolto e portato via il berretto rosso dal capo immobile dell’impiccato. Allora tutti presero in fretta ad andar via, e fu dopo qualche giorno che gli anziani iniziarono a dire che Berretta Rossa, così intanto avevano chiamato quel soldato spagnolo, era morto in maledizione per aver rifiutato i sacramenti religiosi, e che per questo la sua anima era condannata a vagare in un limbo eterno per quei luoghi dove morì, a causa dei suoi delitti terreni.  Da quel momento del fantasma di Berretta Rossa si cominciò a parlare tra i vicoli, sui cortili e nelle case di Erice, anche perché iniziarono proprio allora a verificarsi strani fenomeni: urla, tonfi sordi, satiriche risa, sparizioni misteriose, crolli improvvisi e voci tra le mura del quartiere spagnolo, tanto che i soldati spagnoli abbandonarono in fretta e furia il presidio della caserma, trovando ospitalità presso le case degli ericini. Molti sono i racconti dei locali e di sconosciuti visitatori che, ignari della leggenda, sono stati colti nei luoghi del quartiere spagnolo, in passato e di recente, da tremendi spaventi, facendo a detta dei testimoni, in una sorta di cronaca dell’inspiegabile, la terribile esperienza di lugubri lamenti, di bizzarre apparizioni e di evanescenti figure aggirarsi tra la nebbia, in notti buie e di tempesta, proprio quando si dice il fantasma di Berretta Rossa si materializzerebbe, girovagando inquieto, senza pace, né requie.

 

 

La prostituzione sacra nella terra dell'amore




. L’epica lotta che Ercole condusse contro il re del luogo si concluse naturalmente con la vittoria dell’eroe, il quale affidò la città agli abitanti in attesa che venisse a governarla qualcuno della sua stirpe. quel re valoroso e sfortunato, che la leggenda chiama proprio Erice e del quale fa il progenitore del luogo.: Erice viene detto figlio di Afrodite, la dea dell’amore. E così la leggenda spiega, a suo modo, il fatto che questa dea fu la vera sovrana della città, , sfidando e vincendo il passare dei secoli.
Afrodite dei Greci, Tanit dei Cartaginesi, Venere dei Romani: la rugiada, si narra, cancellava al mattino le tracce dei sacrifici che alla sera si compivano, all’aperto, nel suo luogo sacro; ed ogni anno un volo di colombe recava sull’antistante costa africana il segno di un rito sovranamente mediterraneo, tornando poi indietro a significarne la reciprocità. Si praticava la prostituzione sacra: anch’essa segno inconfondibile del culto che in antico si rese alla dea dell’amore.
In Sicilia, canta Virgilio, venne a mancare il vecchio padre dell’eroe, Anchise; e fu sepolto proprio sul monte di Erice, dove si svolsero cerimonie grandiose in suo onore. V’è forse un caso fortuito in questo collegamento? O non è vero piuttosto che Enea, figlio di Venere, doveva pur sostare nel celebre santuario della dea tanto più in quanto gli abitanti del luogo si ritenevano anch’essi di provenienza troiana? Così accade che Enea fondi sul monte, per la divina madre, «una sede vicina alle stelle»; e che il culto si diffonda in Roma, dove a Venere Ericina vengono dedicati un tempio sul Campid
oglio e poi un altro presso la Porta Collina.
Cosa resta, oggi, di Erice antica? Sulle pendici nord-occidentali del monte, tratti imponenti di mura, dalle quali sporgono grandi torrioni, risalgono certamente a prima dell’età cristiana: ne fanno fede alcune lettere puniche incise sulle pietre. Quanto al celebre santuario della dea, poi rifatto in epoca romana, poi trasformato in chiesa, restano oggi sulla vetta del monte, nell’area del Castello che domina l’abitato, le fondazioni di un edificio punico ed un pozzo, finora detto di Venere, nel quale i turisti si recano a gettare le monetine come nella fontana di Trevi: Alcuni anelli d’oro e d’argento, sempre con la immagine di Venere, sono quanto rimane della leggendaria ricchezza del luogo sacro. Gli scavi compiuti in passato, e che dovranno essere dopo lunga pausa ripresi, indicano la presenza ad Erice di un notevole insediamento punico, confermando i dati già offerti dalle lettere incise sui blocchi di pietra delle fortificazioni; suggeriscono che nella fase antica di tale insediamento fosse attivo l’influsso dei più remoti e fecondi centri della civiltà mediterranea; mostrano che l’occupazione si protrasse per alcuni secoli, confermando le notizie storiche sul permanere dei Cartaginesi ad Erice fino alla conquista romana. Così, l’archeologia illumina i racconti degli antichi scrittori, rivelando la complessità delle credenze e dei riti di queste terre.



 

 

Inserito da Cristina Genna Blogger

 

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