Nell'Archivio di Stato le prove dei rastrellamenti del '44. I familiari di muna delle vittime: "Scelta discutibile da rivedere". E' bufera sul Comune
Due strade dividono la città di Terni. La decisione del Comune lo scorso 25 aprile di intitolare una rotonda e un percorso pedonale ai partigiani, Alfredo Filipponi e Mario Filipponi (omonimi, il primo comandante e il secondo partigiano) della Brigata Garibaldina «Antonio Gramsci» non è andata giù a molti.
Secondo diversi libri sulla storia partigiana, i due Filipponi sarebbero stati tra gli autori delle cosiddette «epurazioni» nell’Umbria rossa nella primavera del ’44, così come è anche emerso dai documenti e dai procedimenti giudiziari conservati all’Archivio di Stato di Terni. La responsabilità penale dei due soggetti è stata cancellata dall’amnistia voluta dal primo ministro di Grazia e giustizia, Palmiro Togliatti nel 1952.
A squarciare per l’ennesima volta il velo sulle responsabilità dei due partigiani era stato il volume edito da Mursia I giustizieri, curato nel 2009 dall’avvocato Marcello Marcellini, posto subito all’indice dall’Anpi, che marchiò il volume come «fazioso e «revisionista». Ma a contestare la decisione del Comune è soprattutto il nipote di una delle vittime della mattanza partigiana, Enrico Carloni, la cui famiglia venne sconvolta dal rastrellamento compiuto dai partigiani. Maceo Carloni, ucciso dalla «Gramsci», era un sindacalista iscritto al Partito nazionale fascista che si rifiutò di passare alla Repubblica sociale di Salò dopo l’8 settembre. Divenne radicalmente anticomunista dopo che nel 1919, durante la leva in Marina, a bordo dell’Andrea Doria giunse a Leopoli, dove la tragedia della dittatura bolscevica si era appena instaurata. La sua «colpa» era quella di difendere «da destra» la classe operaia delle acciaierie del Ternano: i partigiani italiani e slavi che dopo la caduta del fascismo si erano attivate tra l’alto Lazio e lo Spoletino decisero così di eliminarlo.
La notte del 4 maggio 1944, come riportano i documenti ufficiali ripresi dal libro di Marcellini, la casa di Carloni viene saccheggiata e il sindacalista viene seviziato e poi freddato con un colpo alla nuca: a sparare è la brigata Gramsci, come emergerà anche dal primo processo tenutosi nel 1948. «Non facciamo passare volgari delinquenti per eroi in azione di guerra», scrissero i giornali dell’epoca dopo l’arresto della partigiana Gianna Angelini, amante di Mario Filipponi (condannato per diserzione dopo aver abbandonato i soldati di Badoglio del gruppo di Combattimento «Cremona», reparto del Corpo italiano di Liberazione in cui militava anche Curzio Malaparte) e la conseguente ira del Pci. «Era una spia dei tedeschi», disse il comandante Alfredo Filipponi, condannato sia per l’omicidio sia per calunnia. Negli anni Novanta l’autore del libro L’Umbria nella Resistenza, Sergio Bovini, fu costretto a ritrattare la frase «Carloni era un capoccia fascista e sfruttatore del popolo».
In una lettera indirizzata al sindaco di Terni Enrico Carloni aveva chiesto «un ripensamento» per una scelta decisamente «inopportuna». Ma da Terni è arrivato il niet finale.
felice.manti@ilgiornale.it
Inserito da Cristina Genna Blogger
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